Curiosità: perchè si dice Felice come una Pasqua?

Curiosità: perchè si dice Felice come una Pasqua?

Visto che la festa quasi giunta, tra abbondanti libagioni, gite fuoriporta (quest’anno, come quello scorso, persistono alcuni divieti per motivi ben noti) pranzi dai parenti in un tripudio di pastiere, colombe e uova di cioccolato, andiamo a curiosare sulle origini del detto “Felice come una Pasqua”. Perchè si dice così, per definire una persona che esprime una grande gioia? Andiamo a curiosare  nelle origini di questo simpatico detto.

Curiosità: perchè si dice Felice come una Pasqua?
Curiosità: perchè si dice Felice come una Pasqua?

Uno strettissimo periodo di penitenza, prima della Pasqua

Secondo la tradizione cristiana è la festa della risurrezione di Cristo: la felicità e l’allegria vissute da (più o meno) tutti, dunque, dovrebbe essere imputata a questo lieto evento. Almeno a rigor di logica. La risposta invece è un’altra.

Sembra che nel periodo pre-pasquale, in tempi di maggior ortodossia, si vivesse una fase talmente densa di pesantissimi sacrifici, da far riporre nella festività tutta la gioia possibile all’essere umano che aveva vissuto il calvario del periodo di penitenza. In molti testi antichi (parliamo del tardo 800) si racconta infatti come le varie settimane che precedevano il grande festeggiamento cattolico, fossero sancite da tantissimi divieti.

Non si poteva comunicare dopo le ore dodici, divieto assoluto di mangiare carne, pesce, dolci e bere alcolici, divieto di rapporti intimi con il coniuge, divieto di cantare, suonare, leggere poesie, dipingere, ascoltare musica e molto altro ancora: in poche parole, era vietato fare qualsiasi cosa bella ci fosse nella vita.

Un antico detto che significa liberazione

A questa penitenza così restrittiva è dunque dovuto il nostro detto “Felice come una Pasqua”. Perchè la festa arrivava come una vera e propria liberazione da tutti quei vincoli strettissimi, e le persone potevano finalmente tornare a sorridere, cantare, leggere, fare l’amore, dedicarsi all’arte e ai propri vizi, gustare pietanze a cui avevano dovuto rinunciare a lungo, e così via. Finalmente tornavano alla vita normale, lasciandosi alle spalle la cupezza che si erano imposti per pura religiosità.

Tratto dal libro “Ce l’ho sulla punta della lingua”- Carla Ferguson Barberini

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